IL TRIBUNALE MILITARE

    Ha pronunziato la seguente ordinanza nel procedimento a carico di
Calafato   Calogero,   nato  il  19  aprile  1966  a  Ravanusa  (AG),
maresciallo  CC. in servizio presso il R.O.S. di Palermo, imputato di
diffamazione aggravata (artt. 47 n. 2, 227 commi 1 e 2 c.p.m.p.).
    Calafato  Calogero  e'  stato  tratto a giudizio innanzi a questo
tribunale  militare per rispondere del predetto reato di diffamazione
aggravata.  Secondo l'accusa, e come si rileva dalla lettura del capo
d'imputazione,  egli,  in  un  esposto  inviato  a diverse autorita',
avrebbe   offeso  la  reputazione  del  brig.  CC.  Ferreri  Maurizio
attribuendogli vari fatti determinati.
    All'udienza  del  5  ottobre  2005  la  difesa  dell'imputato  ha
sollevato  questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 227
c.p.m.p.  in  relazione  all'art. 3  Cost.  nella  parte  in  cui,  a
differenza  dell'art. 596  c.p.  e alle condizioni da questo poste ai
commi  3  e  4,  non  prevede  la  possibilita'  di  provare  i fatti
attribuiti.
    Una  ricognizione  dei  dati  normativi  vigenti  fa  palese  che
l'art. 596  c.p., pur escludendo in via generale la prova liberatoria
(comma  1),  la  ammette pero' nelle limitate ipotesi contemplate nei
commi  2  e 3; e stabilisce (comma 4) che, se la verita' del fatto e'
provata,  l'autore dell'iniputazione non e' punibile. Questa speciale
causa  di  non  punibilita'  rimane del tutto ignota al codice penale
militare, che non contiene alcuna norma analoga.
    Deve  ricordarsi che il regime originario voluto dal codice Rocco
per  i reati contro l'onore non prevedeva la possibilita' della prova
liberatoria, ma solo quella - eventuale - del deferimento a un giuri'
d'onore  del  giudizio sulla verita' del fatto. La modifica apportata
all'art. 596  c.p.  nei  termini  tutt'oggi in vigore era intervenuta
grazie  all'art. 5,  d.l.  14 settembre 1944, n. 288, che pero' nulla
aveva  disposto riguardo alle corrispondenti fattispecie militari. In
tal  modo  il  trattamento  penalistico  dei  due settori, pressoche'
identico quanto alla morfologia complessiva delle figure criminose di
ingiuria    e   diffamazione,   aveva   finito   per   diversificarsi
profondamente  in tema di cause di non punibilita': mentre nel codice
penale  comune si risolveva in senso liberale la questione del valore
da  attribuire  alla  verita' dell'addebito, il codice militare, nato
nel  1941,  continuava  a  rispecchiare  la  sua matrice autoritaria,
contraria  ad  ammettere  la  legittimita'  della pubblica censura ai
comportamenti di determinati soggetti.
    L'attuale  disarmonia  tra  i  due settori penalislici non appare
comprensibile  sotto  il  profilo  della  ragionevolezza, non essendo
possibile   individuare   alcun   valido   motivo   della  perdurante
sperequazione;  e  per  cio'  stesso  appare ingiustificato ex art. 3
Cost.,  poiche'  finisce  per  trattare  la  posizione  dei  militari
imputati  di  ingiuria o diffamazione in modo pesantemente diverso da
quello  previsto per i non appartenenti alle Forze armate imputati di
illeciti del tutto analoghi.
    Da  cio'  discende  la non manifesta infondatezza della questione
sollevata dalla difesa. Quanto alla sua rilevanza nel procedimento in
corso,  e'  appena  il  caso  di rilevare che l'esito di quest'ultimo
sarebbe  ben  diverso  ammettendosi o negandosi la possibilita' della
prova  liberatoria:  poiche'  in  un  caso  si  potrebbe pervenire, e
nell'altro  no,  a  una pronuncia favorevole all'imputato nei termini
previsti dall'art. 596 comma 4 c.p.